Roma brutalista

Con il termine brutalismo si intende un movimento architettonico sviluppatosi in Inghilterra a partire dagli anni Cinquanta che prevede come caratteristica preponderante l’utilizzo del cemento facciavista, vale a dire del béton brut

Per sviluppare una completa comprensione e conoscenza della storia di Roma è necessario avere nozione di un’ampia parentesi dell’architettura della città eterna: la fase che inizia con la ricostruzione del secondo dopoguerra e si sviluppa fino agli anni Ottanta quando l’architettura contemporanea diventa l’unico linguaggio possibile.
È su questo terreno che si sviluppa la cosiddetta architettura brutalista, in un momento di estrema urgenza abitativa causata inevitabilmente dal secondo conflitto mondiale e dall’utilizzo dei nuovi materiali che diventeranno i principali del secolo: tra essi protagonista indiscusso è certamente il calcestruzzo armato, noto anche come béton brut, che caratterizzerà la maggior parte delle costruzioni del Novecento.
La storia del brutalismo ha origine con la costruzione dell’Unité d’Habitation di Marsiglia, che fu terminata da Le Corbusier nel 1952 e che inaugura la stagione del cemento facciavista e delle architetture ciclopiche del maestro francese. Prosegue poi con un secondo filone inglese, nominato new brutalism, termine coniato dalla coppia di architetti Alison e Peter Smithson che donarono un secondo successo a questo linguaggio architettonico nel decennio che va dagli anni Sessanta ai primissimi anni Settanta.
Essendo abituati ad una certa immagine di Roma legata indissolubilmente alla civiltà romana nonché al periodo barocco è difficile immaginare che proprio la città eterna sia stata terreno fertile per l’architettura brutalista, e invece è stato proprio così: per certi versi i risultati ottenuti si pongono sulla stessa linea di ricerca di architetti come Paul Rudolph e Louis Kahn che sono considerati maestri della storia dell’architettura e che negli Stati Uniti hanno lasciato forse le testimonianze più mirabili di questo linguaggio architettonico.

1. Luigi Pellegrin, Palazzina a Piazzale Clodio, 1955 – 1958

Primo esempio di questa trattazione è una palazzina Piazzale Clodio costruita tra il 1955 ed il 1958 dagli architetti Luigi Pellegrin e Angelo Cecchini, progettata con volumi semplici arricchiti da un gioco di pieni e vuoti che ornano il complesso: grande è il lavoro di Pellegrin sull’involucro che risulta dinamico e flessibile pur mantenendo un suo equilibrio formale tanto che il complesso ha in sé i caratteri di un protobrutalismo che solo nel decennio successivo diventerà dilagante.

2. Studio Passarelli, Edificio Polifunzionale in via Campania, 1965

Ma è col secondo edificio che abbiamo voluto raccontare in questo articolo che si raggiunge uno degli apici della progettazione architettonica italiana: l’edificio polifunzionale in via Campania costruito dallo Studio Passarelli a partire dal 1965. Perla del quartiere Boncompagni Ludovisi, l’edificio trasuda l’entusiasmo e il coraggio tipici del boom economico degli anni ’60, non a caso Passarelli soleva dire: “un bravo architetto è colui che riesce a interpretare il clima del tempo”. Partendo dall’alto la scansione dell’edificio si articola nella seguente maniera: il nucleo deputato alle abitazioni, che si presenta ruotato rispetto al blocco di base, è in cemento ed è composto da fasce fioriere sempre in cemento unito a graniglia, infissi in legno naturale e metallo, pannelli in grès smaltato, brise-soleil orizzontali, mentre, a filo con l’altezza delle mura aureliane, si sviluppa il blocco riflettente in vetro brunato. L’intero sistema è integrato in un verde architettonico costituito da terrazze che danno luogo a giardini pensili e, per tutti i motivi fino ad ora descritti, l’edificio è stato particolarmente apprezzato dalla critica e specialmente da Bruno Zevi, che lo ha incluso nei progetti selezionati per il libro “Capire e fare architettura. Capolavori del XX Secolo”.

3. Piero Sartogo, Ordine dei medici della provincia di Roma, via G. B. De Rossi 9, 1966 – 1971

Un anno dopo, nel 1966, inizia la costruzione di un altro dei complessi meglio riusciti del movimento: l’edificio dell’Ordine dei Medici della provincia di Roma di Piero Sartogo. Con all’attivo un tirocinio presso lo studio di Walter Gropius, Sartogo non poteva che creare un’opera esemplare per forme e funzioni in cui è certamente applicata la lezione organica prima wrightiana – nelle finestre a nastro inclinate ad esempio – poi zeviana, in cui la storia è magistra vitae come già sapeva bene anche Cicerone, e infine, ma non per ultimo, breueriana in quanto le opere di Marcel Breuer erano certamente ben note all’architetto romano.
L’edificio, terminato nel 1971, si compone di un basamento in cemento armato sormontato da un corpo di fabbrica con elementi in acciaio, volendo in una logica sovvertita rispetto ai criteri materici del precedente edificio per uffici dello studio Passarelli.

4. Sir Basil Urwin Spence, Ambasciata Britannica, Via XX Settembre 80, 1968 – 1971

E sempre nel 1971 a Roma viene terminato un altro caposaldo dell’architettura brutalista: la sede dell’Ambasciata Britannica di Sir Basil Urwin Spence, architetto inglese nato a Bombay (oggi Mumbai, India) già noto per essersi occupato della ricostruzione della cattedrale di Coventry in Inghilterra, andata distrutta in un bombardamento nel 1940. Nell’attuale lotto di via XX Settembre sorgeva la sede precedente dell’ambasciata, la villa del Duca di Bracciano, costruita nel 1825 e venduta dagli eredi Torlonia al governo britannico dopo la breccia di Porta Pia: l’edificio andò distrutto nel 1946 a causa di un attacco terroristico e i resti furono definitivamente abbattuti per far spazio alla nuova sede di Sir Spence che è per altro l’unica opera italiana mai costruita dall’architetto.
Le difficoltà non furono poche, considerando anche il dialogo con l’edificio adiacente – niente di meno che la Porta Pia di Michelangelo – eppure Sir Spence porta a casa l’impresa progettando un corpo di fabbrica obbligatoriamente arretrato rispetto alla strada per motivi di sicurezza e un’austera maglia quadrata che dà vita ad un edificio forse incompreso per alcuni anni ma che ben rappresenta il linguaggio brutalista dell’epoca.

5. Francesco Berarducci, Villino in via dei Colli della Farnesina, 1968 – 1969

Bisogna tener presente che, nonostante gli edifici sinora presentati abbiano quasi tutti destinazione ad ufficio, il brutalismo non rispose solo alle chiamate di enti e uffici bensì si adattò anche all’edilizia residenziale e ne sono esempi il villino in via dei Colli della Farnesina di Francesco Berarducci e la Casa Sperimentale di Giuseppe Perugini. Il primo è un edificio voluto da una committenza signorile che ben comprendeva le possibilità di questo nuovo linguaggio architettonico: Berarducci utilizza per l’occasione dei pilastri a C che, intersecandosi con le travi, formano una maglia monumentale che definisce i pieni, i vuoti e gli aggetti – tutti diversi – del villino.

6. Giuseppe Perugini, Casa Sperimentale, Fregene 1970

Il secondo è uno dei più avveniristici edifici del Novecento anche per il contesto in cui si trova, la cittadina balneare di Fregene, ed è la casa sperimentale nota anche come casa albero progettata da Giuseppe Perugini, sua moglie Uga De Plaisant ed il loro figlio Raynaldo Perugini. L’opera venne realizzata con tre materiali, il cemento, il ferro, dipinto di rosso, ed il vetro e rappresenta l’archetipo del guscio all’interno del quale la famiglia trova ristoro. Al complesso si aggiungono poi elementi particolarmente originali come la stanza della meditazione costituita da una sfera in cemento che si trova nel parco che circonda la casa o la piscina, situata sotto la casa.
Attraverso le parole di Raynaldo Perugini è possibile comprendere la vera essenza di quest’opera sperimentale: Essendo tutti e tre architetti era un po’ il giocattolo di famiglia, nel momento della realizzazione ognuno di noi proponeva soluzioni e nascevano discussioni…era una sorta di grande laboratori…immaginatevi un plastico in scala reale! Questa era la casa di Fregene, un plastico al vero in cui ognuno metteva del suo. Una sorta di bottega globale nella quale lavoravamo tutti e per ogni problema c’erano un’infinità di soluzioni possibili.”.

7. Alvaro Ciaramaglia, Edificio a via Poma, 1973

Potrebbe passare inosservato in qualsiasi altro posto del mondo ma non a Roma, l’edificio collocato tra via Pietro Borsieri e via Carlo Poma in Prati. In un lotto in cui un tempo c’era un villino di Enrico Del Debbio, sorse nel 1973 un edificio per uffici che strizzava l’occhio a tutto ciò che di brutalista c’era stato fino a quel momento, da Kahn a Kenzo Tange, da Rudolph a Perugini. Negli anni Novanta la Ghella s.p.a. decide di acquistare e riqualificare questo immobile, nato per usi commerciali, per creare uno dei più felici interventi di riqualificazione e retrofit degli ultimi anni firmata dallo studio Spaini-Ricci: gli architetti hanno operato con estrema sensibilità progettuale conservando la facies dell’edificio, ma conferendogli al contempo una grande dose di contemporaneità anche attraverso l’uso di superfici vetrate opache e colorate.

8. Mario Stara, Edificio in Lungotevere delle Armi, 1974

Gli ultimi esempi da annoverare riguardano l’edilizia residenziale, il primo è una riuscita palazzina elaborata dall’architetto Mario Stara su incarico dell’Istituto Nazionale delle Assicurazioni, che doveva essere inizialmente un circolo ricreativo per i dipendenti INA, e la cui destinazione è divenuta poi residenziale. Stara in collaborazione con Giancarlo Pennestri realizza un blocco sopra il quale sembra che per le balconate per giustapposizione vi si avvolgano intorno, mentre il coronamento è un volume sospeso caratterizzato da quattro elementi forati dietro ai quali si celano gli ultimi piani della struttura.

9. Mario Fiorentino, Corviale, 1975 – 1982

L’ultimo esempio – ultimo in ordine cronologico essendo stati trattati gli argomenti con questa logica – rappresenta uno dei casi più controversi della storia dell’architettura di Roma e ha avuto diverse fasi di valutazione dalla critica, fino ai giorni nostri quando il complesso sta cercando di avere una nuova vita attraverso un’opera di rigenerazione: stiamo parlando del Corviale.
“Parlare di Corviale senza sollecitazioni o domande particolari crea sempre un certo imbarazzo” – sosteneva Mario Fiorentino in un’intervista rilasciata poco dopo l’inizio dei lavori del complesso – “imbarazzo semplicemente dovuto al fatto che non si sa da che parte cominciare e questo perché Corviale pone dei quesiti legati all’architettura in generale e ai rapporti che l’architettura ha con la città e con la storia”.
E prosegue: “Su quest’ultimo aspetto bisogna dire che Corviale non nasce casualmente a Roma: il suo proporsi con questa monumentalità nasce in quest’ottica e a livello progettuale, l’utilizzo di partizioni ripetute unite alle grandi porte d’ingresso, è di nuovo un omaggio a Roma ed un inevitabile richiamo ai grandi portali romani che sono un elemento ricorrente dal Cinquecento in poi. Bisogna subito smentire che Corviale sia un’unità d’abitazione, il fatto che sia stato progettato a Roma rimanda a molti concetti: Roma, infatti, è una città tipicamente ricca di fatti morfologici emergenti e non di elementi modulari di tipologia ripetuta”. Per quanto riguarda poi la scelta progettuale Fiorentino afferma: “Siamo abituati a restare legati alla logica di derivazione funzionalista che distingue per parti la residenza dai servizi dalle attrezzature ecc. mentre nel Corviale c’è il tentativo di rendere omogenee queste parti. Il sistema lineare è stata una scelta legata a richiami morfologici che Roma ha suggerito, ma è anche una scelta tecnica, che presuppone la possibilità di organizzare un cantiere di 800.000 metri cubi attraverso un sistema di produzione industriale”.
Il progetto ha previsto infatti la creazione di tre corpi: una stecca principale lunga quasi un chilometro, a cui si staglia parallelamente un corpo più basso e un terzo corpo ruotato di 45°che connette Corviale alla zona di Casetta Mattei, il tutto con una superficie di estensione enorme.
Così come suggerito da Fiorentino, e come anche i numeri aiutano a comprendere, i problemi legati alla grandezza dell’impianto saranno fatali anche nelle fasi successive alla costruzione e fino al giorno d’oggi, tanto che uno dei progetti redatti per la riqualificazione del complesso prevedeva la chiusura dei blocchi scala per creare diversi condomini che fossero di minore dimensione e dunque di più facile gestione per tutti, dando in questo modo anche una risposta ai problemi di sicurezza che da sempre sfortunatamente hanno attanagliato l’edifico.
Tuttavia, nel bene o nel male, non bisogna dimenticare che questo edificio ha risolto il problema abitativo di moltissime persone a partire dagli anni Ottanta e sono stati più volte proprio gli stessi abitanti del quartiere a ribellarsi alla distruzione del complesso che, per la sua estensione in lunghezza, negli anni è divenuto noto anche come “Serpentone”. In ogni caso, nessuna ipotesi riguardante la distruzione del manufatto risulta accettabile: senza considerare i costi e le macerie che si verrebbero a creare, bisogna sempre tener presente la questione abitativa. In secondo luogo, non è possibile attribuire a Fiorentino alcuna responsabilità sulla speculazione edilizia del Corviale o sulla gestione del complesso: Mario Fiorentino ha elaborato per Roma alcune delle più felici soluzioni abitative come il quartiere INA casa al Tiburtino con Ludovico Quaroni e Mario Ridolfi e una delle case a torre di viale Etiopia, ed è stato inoltre l’autore del Monumento ai martiri delle Fosse Ardeatine insieme a Nello Aprile e Giuseppe Perugini. È perciò indiscutibile la sua figura come professionista così come il suo essere estraneo ad ogni polemica sul Corviale, tanto più che l’architetto venne a mancare nel 1982 quando il complesso non era nemmeno del tutto ultimato.
La sfida ad oggi, così come in tanti altri casi d’Italia, è rappresentata dal trovare una corretta riqualificazione del complesso: da dieci anni si susseguono proposte e iniziative che hanno inglobato anche operazioni come quella di Corviale urban lab che si è occupato di dare colore alle panchine del complesso attraverso le opere di Gojo, Aurora Agrestini, Alessandra Santo Stefano, Monica Vecchio e di realizzare murales ad opera di artisti internazionali quali Luis Gomez the Theran, Moby Dick e Alessandro Fornaci. O l’iniziativa “Periferia delle meraviglie: la street art cammina da Trullo a Corviale” svoltasi nel 2018 che ha utilizzato il cammino come esperienza culturale e artistica per permettere alle persone di vivere una periferia di Roma che è un vero museo a cielo aperto e un prodigio di suggestioni.
A gennaio 2019 sono iniziati i lavori dei due progetti che riguarderanno la riqualifica del Serpentone: il primo firmato dall’architetta Guendalina Salimei in collaborazione con l’Università degli Studi di Roma Tre prevede il risanamento del quarto piano e la distruzione degli alloggi abusivi, mentre il secondo, dal titolo “Rigenerare Corviale”, avrà l’obiettivo di migliorare l’accessibilità all’edificio e la vivibilità e la sicurezza dei percorsi interni e degli spazi comuni.

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